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'L’angolo del legale’: … il reato di maltrattamenti in famiglia
Rubrica a cura dell’Avvocato Alessandra Mastri Flamini
L’articolo 572 del codice penale, primo comma, stabilisce che “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni”.
Il reato si configura ogni qual volta un soggetto maltratta una persona appartenente alla sua famiglia o comunque con lui convivente o una persona sottoposta alla sua autorità o che gli è stata affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l'esercizio di una professione o di un'arte. Tale concetto è infatti esteso anche al convivente more uxorio, a tutti coloro che sono in qualche modo legati da un rapporto di parentela con il maltrattante. La pena base per il reato di maltrattamenti in famiglia è quella della reclusione da due a sei anni.
Tale pena è aggravata in tre ipotesi: se dal fatto deriva una lesione personale grave è prevista la reclusione da quattro a nove anni; se dal fatto deriva una lesione personale gravissima è prevista la reclusione da sette a quindici anni; se dal fatto deriva la morte è prevista la reclusione da dodici a ventiquattro anni. La legge n. 69/2019 ha poi previsto che la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso con armi o in presenza o in danno di persona minore, donna in stato di gravidanza oppure persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
Configurano il reato di maltrattamento, la condotta violenta o non violenta che comprime o impedisce lo sviluppo della personalità umana. In una nota sentenza della Cassazione, la n.8396/1996 i giudici hanno stabilito che “Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali...”.
La giurisprudenza precisa che si tratta di un delitto in cui è sufficiente ai fini della sua configurabilità un dolo generico consistente “nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo e abituale in modo da lederne complessivamente la personalità“ (Cass. 11476/1997).