Nostalgia del Corso

Cosa era il Corso per noi giovanottelli anni sessanta? Non esiste una definizione che possa esprimerlo con efficacia. Forse. Vita. Duecento metri di vita. Perchè il corso a quei tempi era vivo. Nelle piastrelle, nelle borchie dorate, nei negozi, nelle luci. Duecento metri di strada che a forza di percorrerlo avanti e indietro, avanti e indietro, diventavano chilometri. Chilometri di allegria, risate, scherzi, saluti, occhiate di sguincio alle coetanee che incrociavi, nella speranza di un loro sorriso incoraggiante, a testa bassa, con il cuore che aumentava il volume del battito. Uffa. Domani interrogazione di greco. Raga, chi ha fatto la versione ...? Per amor di Dio, passatemela. Sennò domani Fabio mi asfalta. Timore reverenziale? Macchè. Incoscienza giovanile. Scapellotti volanti. Rincorse. E su tutto la luce. La luce, capite.? 

Il corso era tutto una luce. Dalla libreria Signorelli, dal Mokarex, dal Cavallini, dal Bar del Corso con le sue specchiere stile ottocento, dai Grandi Magazzini, dal Bar La Posta di Aso, dal Martinelli, dalla Varesina, dal Parronchi, dal Casini, dall'oreficeria Menci, dalla cartolibreria Guastini, dal Giappone. Persino Ettore Socci pareva sorridere sotto a baffoni, con il suo cappello dag bersagliere. Ti immaginavi che se avesse potuto, si sarebbe sfregato le mani per togliersi un po' di freddo di dosso. Dalla via Fulceri giungevano gli effluvi della cucina del Peccianti. La Maremma in tavola. La cacciagione. La nostra identità gastronomica. Le vetrine del Martinelli, illuminate dai lampioni, erano uno splendore. Ci appoggiavi il volto, ci schiacciavi il naso e dietro il vetro appannato, tra i tavoli e gli avventori, potevi intravedere la figura elegante del Sor Giovanni che dalla cassa distribuiva scontrini e sorrisi, mentre la macchina Faema scaffeava a pieno ritmo sfornando esaltanti caffè e cappuccini e meravigliose paste farcite di crema, panna e zabaione ti lanciavano languide occhiate dai vassoi.